
La recente presa di posizione della Conferenza Episcopale Siciliana contro la proposta di legge regionale sul fine vita rappresenta un baluardo di responsabilità morale e civile in un tempo in cui si rischia di scivolare verso una visione strumentale e utilitaristica della vita umana.
Sono accanto ai Vescovi, non soltanto perché mi riconosco nei valori cristiani ma anche perché sento il dovere di ribadire con forza l’urgenza di una riflessione etica più profonda prima di legiferare su un tema tanto delicato.
Il tentativo di normare il suicidio medicalmente assistito, pur motivato da esigenze di tutela individuale, rischia di legittimare una cultura dello scarto in cui la sofferenza diventa un motivo sufficiente per anticipare la morte. Come hanno giustamente sottolineato i vescovi siciliani, guidati da monsignor Antonino Raspanti, la vera sfida non è “accompagnare a morire”, ma rafforzare le reti di cura, di accompagnamento psicologico, di sostegno spirituale e sanitario.
In un territorio come la Sicilia, dove le strutture sanitarie per le cure palliative è ancora disomogeneo, parlare oggi di fine vita rischia di trasformarsi in una scorciatoia per chi non ha alternative reali alla sofferenza. Prima di legalizzare il gesto estremo, dobbiamo impegnarci a garantire a ogni cittadino l’accesso a un sistema di cure degno e compassionevole.
Il vero progresso non sta nell’accorciare la vita, ma nel valorizzarla fino all’ultimo respiro. Ed è questo l’appello accorato che viene dal mondo ecclesiale e da una parte della politica siciliana, quella che ancora crede che i diritti si esercitano pienamente solo quando nessuno è costretto a scegliere tra dolore e morte.
L’Assemblea Regionale Siciliana è chiamata a un atto di responsabilità storica. Non si tratta di schierarsi ideologicamente, ma di tutelare il principio fondante della nostra civiltà: la sacralità della vita, soprattutto quando è più fragile.